Dalla pietra alla calce

“Calce: legante usato da tempo remotissimo per comporre le malte… impastandolo con aggregati sottili, inerti, sabbie calcaree o silicee… La calce viva si presenta in zolle bianche giallastre… La calce spenta (idratata o grassello) è impiegata… anche come materiale da costruzione” (Enciclopedia Treccani, vol. II).
“La calce (calx) è il più importante elemento costitutivo della malta: si ottiene cuocendo in fornace della pietra calcarea, minerale formato prevalentemente da carbonato di calcio, misto ad altri componenti. La cottura avviene in forni a forma conica per la fuoriuscita dell’anidride carbonica, che si sviluppa in fase di cottura e che deve necessariamente uscire, onde ovviare a procedimenti inversi.
L’ossido di calcio così formatosi dà luogo alla calx viva. La formula è la seguente: Ca Co3=calce viva CaO+anidride Co2.
La calce così ottenuta si depone e si banga con acqua. A contatto con l’acqua, la calce si riscalda fino a raggiungere la temperatura di 300°; quindi si raffredda, si polverizza divenendo calce spenta (calx extinta) che al momento dell’uso viene bagnata, formando una pasta tenera ed omogenea, detta grassello di calce.
La calce grasello unita alla rena forma la malta. Qui avviene un processo inverso, la calce si combina lentamente con l’anidride carbonica dell’aria, trasformandosi in carbonato di calcio e quindi riprendendo la dureza del calcare in un’unica massa. La presenza di pietre, quali gli scapoli di tufo, accelera il processo di assorbimento (Giuseppina Pisani Sartorio, L’opera cementizia, in Costruire l’impero, Archeo n. 56, ottobre 1989).

Che questo legante fosse conosciuto anche in Valcamonica, fin dai tempi antichi è dimostrato da numerosi reperti archeologici.
Alcuni anni fa ebbi modo di oservare i resti di una struttura abitativa di età romana che si stava riportando ala luce a Cividate: ebbene, le tessere di mosaico ritrovate erano accompagnate da numerosi frammenti di malta di calce che doveva servire a fissarle al pavimento.

Per molti secoli, la calce ha costituito, almeno in Valcamonica, il materiale indispensabile per ogni tipo di costruzione in muratura (religiosa, civile, militare), per la coltivazione della vite, mescolata al verderame, e per la realizazione di particolari opere d’arte: si pensi ai numerosi affreschi del Romanino o di Pietro da Cemmo o a quelli più modesti che ornano santelle o muri di numerose abitazioni nei nostri paesi.
La produzione di calce doveva avere quindi un posto non irrilevante nell’economia della Valle, non meno importante della ben più nota ferrarezza (lavorazione del ferro e connessa produzione di carbone vegetale per forni e fucine).
Se il prodotto delle calchere non ha avuto la notorietà, anche letterario, che ha avuto la ferrarezza è solo perchè la calce veniva venduta e consumata quotidianamente in Valle Camonica, mentre il ferro era particolarmente apprezzato e richiesto da città come Milano, Brescia, Bergamo e Venezia.
In Valle Camonica le calchere e, più tardi i forni di produzione della calce, erano dislocati in prossimità delle fonti di materia prima, cioè nei luoghi dove abbondava il calcare. Dalla carta geologica si può rilevare come la maggior formazione calcarea occupi il tratto, relativamente breve, del versante destro da Angolo a Ono S. Pietro.
Fu soprattutto sul conoide di deiezione della Concarena, compreso tra Losine a sud e Ono S. Pietro a nord, che venne costruito il maggior numero di fornaci di calcinazione.

L’importanza economica di queste strutture produttive era tale da dar origine, a volte, ad aspre contese tra privati e addirittura tra comuni limitrofi.
È il caso, ad esempio, della vertenza del 1660 “…tra le Comunità di Cerveno da una et la Comunità di Hono dall’altra… ch’essi di Hono non ardissero proseguir l’escavattione già incominciata per la calchera (del Desserino, n.d.r.).
In occasione di tale contesa, Carlo Rizzieri, scelto come arbitro, aveva così sentenziato: “…Per questa volta quelli di Hono possono perfettionare la suddetta escavattione et ivi far la calchera dessignata… e per questa volta solo che finita la calchera sia immediatamente ottuso il coppo (buco) da quelli di Hono et che per segno di ricognittione di tale licenza siano obbligati a dare alla detta Comunità di Cerveno duve (due) benne di calcina”.
In tempi più recenti, ci assicura Troncatti Benedetto (Beto) in un’intervista “le calchere esistenti a Ono erano quattro e producevano ogni volta dai 250 ai 300 quintali ognuna, a seconda della grandezza”.

L’uso delle calchere non era riservato esclusivamente alle famiglie proprietarie; queste infatti affittavano la fornace a chi ne avesse avuto bisogne.

Risulta dificile calcolare esattamente la quantità di calce prodotta in paese; si può ragionevolmente ipotizzare che superasse le 500 tonnellate.

Una simile attività produttiva doveva porre non pochi problemi e richiedere un impegno non indifferente, per quei tempi, di manodopera. si pensi anche solo al reperimento e trasporto della materia prima (il calcare) e della fonte di energia (la legna) per fare calchera.
A questo punto vanno aggiunte le difficoltà dovute non tanto alla scarsa richiesta, ma soprattutto ai mezzi di trasporto dell’epoca.
Inatti fino all’immediato secondo dopoguerra, quando apparvero in Valle i primi camion a metano, il trasporto di legna, pietra e calce avveniva ccon carretti trainati da muli.

“Per fare una calchera occorrevano circa 500-600 quintali di legna, cioè circa 2.000 fascine di 25-30 Kg l’una, oltre a tutte le pietre, alcune delle quali, tagliate a forma di cuneo per costruire la volta, pesavano anche un quintale. Tutto questo veniva trasportato con carretti trainati da muli. La legna spesso doveva essere trasportata da lontano. Noi siamo andati ancora a Forno d’Allione e a Paisco Loveno a tagliare il bosco”
(Intervista a Troncatti Benedetto).

La cottura delle pietre continuava ininterrottamente per 8 giorni e 8 notti.
Una volta trascorso questo tempo si poneva il problema della smercio della calce: “Andavamo anche fino a Precasaglio di Ponte di Legno. Il primo giorno andavamo, con 3-4 quintali di calce fino a Edolo e il giorno dopo raggiungevamo Precasaglio. Gli altri paesi dove andavamo a vendere erano un po’ tutti i paesi della Valle: Edolo, Cedegolo, Malonno, con tutte quelle frazioni, Breno, Darfo, Bienno… Prima uno di noi andava in bicicletta a fare il contratto e poi portavamo la calce col carretto” (idem).
Poi venne il camion, la nafta e i copertoni usati come combustibile, ma la qualità della calce peggiorò; a questo si aggiunse la concorrenza dell’industria che produceva a costi inferiori e ciò segnò la fine, attorno ai primi anni settanta, di questa attività che era durata per secoli.

Testo Valerio Moncini – Disegni di Sabrina Valentini

“Le prime fornaci erano di sarizzo rosso (arenaria n.d.r.) … più tardi con dei blocchi refrattari abbiamo rivestito la nostra.
La forma interna era a botte: stretta in fondo, più larga a metà e ancora stretta in cima in modo che non ci fosse dispersione di calore. La “calchera” non deve essere nè troppo stretta in fondo nè troppo larga a metà altrimenti fa tanta brace, ma non scalda bene le pietre.
La calchera è alta 4 metri. La preparazione avviene in questo modo: fino a 2 metri di altezza si costruisce tutto intorno un muro, con pietra calcarea, che si va sempre più restringendo verso il centro fino a formare una volta, sopra si prosegue riempiendo con strati di pietre da 50 Kg poi da 30 Kg; attorno ai 4 metri di altezza si continua con pietre grosse come una “mantuana” (pagnotta n.d.r.) e sopra, nella parte fuori terra, si faceva la “güba”, la gobba, cioè una specie di cupola, lì mettevamo sassi grossi come un panino di 70 grammi.
L’apertura che c’era sul davanti serviva per poter introdurre le pietre e l’altro materiale che serviva a preparare la fornace perchè la metà del materiale, quello necessario fino alla volta, lo portavamo dentro da sotto, il resto lo calavamo da sopra.

Quando era completa la volta, con un muro si chiudeva l’apertura davanti. Tra le pareti della fornace e il calcare da cuocere lasciavamo un’intercapedine di 50 cm che riempivamo con pietrisco, cenere delle precedenti lavorazioni e polvere di calce, così quando le calorie erano tante facevano da materiale isolante che conservava il calore all’interno della fornace altrimenti le prime pietre non cuocevano bene e rimaneva all’interno “l’uovo” (nucleo non cotto e quindi non solubile in acqua n.d.r.).
Nel muro davanti si lasciava una piccola apertura per introdurre le fascine; era un’apertura larga 35-40 cm, fatta a triangolo (una volta ci passava anch’io adesso no).
Di calchere ce n’erano a Ono S. Pietro, Cerveno, Losine e forse anche ad Angolo Terme. Quando sono arrivati i camion ne hanno costruita una anche a Vezza d’Oglio; portavano su le pietre da qui. Facevano la calce anche alla SEFE, alla Scianicca. Usavano sempre le pietre della Concarena; le mandvano su con il camion o con la teleferica che partiva da Duìl, qui a Ono S. Pietro, passava sopra Pescarzo e arrivava alla Scianica, nel comune di Sellero.

(Intervista a Troncatti Benedetto (n. il 18/8/38),
a cura di G.C. Maculotti e V. Moncini;Ono S. Pietro 5/5/1983 – disegni Sabrina Valentini)